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Allora, non ci perdiamo in chiacchiere e in sterili copiaincolla e mettiamola così. C'è uno spacciatore di eroina arrestato in flagranza. Il magistrato lo interroga in carcere: chi ti ha passato la droga? Chi sono gli altri spacciatori sulla piazza? Quello risponde: mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Intralcia la giustizia, impedisce di salvare vite umane, ma non paga con un solo giorno in più di condanna. Poi, una volta uscito (sconti di pena, etc.) non avendo tradito gli amici, anzi essendo diventato per loro quasi un eroe perché si è fatto qualche annetto dentro con la bocca cucita, la mafia lo riaccoglie a braccia aperte: è uno sicuro, può ritornare sulla piazza a spacciare, come prima più di prima. Tu mi dirai, è giusto così. E peggio per i ragazzi e le ragazze cui l'eroina di quello spacciatore e dei suoi colleghi rovinerà (o spegnerà) la vita. Discorso del tutto analogo vale per i corruttori. Esempio di pura fantasia. Un grande imprenditore del settore degli appalti pubblici, aduso ad aggiudicarsi commesse a suon di tangenti ai politici (o ad amici o parenti di politici, e magari pure a qualche generale dei carabinieri per tenerselo amico), viene arrestato perché su di lui pendono gravi indizi (intercettazioni, testimonianze, etc.). Quello ha due possibilità: rispondere ai magistrati o tacere. Naturalmente potrebbe rispondere e negare, ma questa è una strada pericolosa (per i colpevoli ovviamente): si rischia di cadere in contraddizione. Se invece parla, essendo nelle nostre ipotesi colpevole, egli può sperare al massimo in uno sconto di pena. Però deve rinunciare per sempre alla sua lucrosa attività: un corruttore che ha parlato, che ha accusato anche un politucolo (o un amico o un parente del politucolo) deve solo cambiare mestiere (visto che l'imprenditore onesto non lo sa fare): nessun politico o politucolo o faccendiere si farà mai più corrompere da lui. In un sistema giudiziario colabrodo come quello italiano a molti corruttori conviene assolutamente tacere.
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Inviata
Lo capisco Fosforo, lo capisco !! Non butta bene ed il dipanarsi della vicenda non va per niente nella direzione che il Fatterello si auspicava e che anche te anelavi. Vuoi mettere un titolo del genere a firma Calandrino " Matteo Renzi incastrato. La vicenda Consip ne suggella la sua fine politica". Invece sembra che si stia andando verso una soluzione diametralmente opposta ed i maldipancia ulcerosi iniziano ad impadronirsi di chi ha tentato e/o creduto di sconfiggere una persona onesta e perbene con un metodo che , al confronto , quello chiamato Boffo, e' roba da educande. Dopodiché vedo che ti lanci in una analisi del CPP a dir poco "fantasioso". Se non capisco male, se dipendesse da te , una condanna verso chi non ha risposto alle domande dei pubblici ministeri, avvalendosi di un diritto in auge in tutti gli ordinamenti dei paesi civili e democratici dell'universo , meriterebbe un supplemento di pena di almeno un terzo con relativa menzione sul certificato penale . È così vero ?? Ho capito bene , vero ?? E questo , secondo te , perché la non applicazione di questo lodo che mi permetterai chiamerò lodo Fosforo, porta indubbi vantaggi ai colpevoli e non agli innocenti . Bene se quindi ho interpretato bene il Lodo Fosforo , sono pervaso da un misto di pena oltre che di paura. Pena perche' un provvedimento del genere sarebbe contemplato solo nel nostro ordinamento , sarebbe bocciato immediatamente dalla Corte Europea perché in contrasto con i diritti dell'uomo che , se Fosforo non lo avesse ancora capito , un individuo , per essere condannato , deve aver accumulato carichi probatori indiscutibili ed incontestabili se non la possibilità di potersi appellare ad un secondo e un terzo grado prima che la sentenza possa definirsi definitiva Paura perché se la giustizia fosse in mano ai Fosforosi, lo Stasi , le corti marziali di tanti paesi sudamericani diventerebbero associazioni bocciofile . Forse Fosforo non lo sa , ma anche di fronte ad una piena confessione dell'imputato , ciò non sarebbe sufficiente per essere condannato ma necessiterebbe un castello probatorio per dimostrarlo. Ho paura perché secondo il lodo Fosforo , in questo momento , alloggerebbero nelle patrie galere numerosi esponenti ( del PD) che invece sono stati , dopo le indagini del caso , assolti e/o archiviati. Allo scopo invio un estratto che chiarirà meglio le mie affermazioni :'
Negli ordinamenti analizzati (ma, si può dire, dappertutto, nel mondo civile), al sospettato e all’accusato si riconosce il diritto al silenzio, almeno nel senso che durante tutto il corso del procedimento penale essi possono rifiutarsi di rispondere alle domande loro rivolte, senza esporsi, per l’esercizio di tale diritto, ad alcuna sanzione e tale diritto al silenzio è stato recentemente consacrato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La dichiarazione, che sia stata ottenuta in violazione del diritto al silenzio, mette d’altronde in evidenza un importante profilo del tema delle prove ottenute con mezzi inaccettabili.
L’aspetto più discusso, a tal proposito, è quello della possibilità di utilizzare la dichiarazione dell’indiziato, resa senza che questi sia stato avvertito del suo diritto di tacere. Ne scaturisce, ancora una volta, la questione della prova ottenuta illegalmente: e la soluzione dipende, ovunque, dall’esistenza, o dall’inesistenza, di un obbligo di avvertire l’interessato circa il suo diritto al silenzio, dai termini di tale obbligo (là dove esiste), e dall’atteggiamento del giudicante quanto alle conseguenze della sua inosservanza.
Circa il diritto al silenzio, esistono però anche due altri problemi, distinti ma connessi. In primo luogo, se si possa utilizzare contro l’accusato una dichiarazione che egli, per legge, è obbligato a rendere fuori del processo penale. In Inghilterra, per esempio, la disciplina legislativa del fallimento obbliga il fallito, sotto minaccia di sanzione penale, a rispondere alle domande del commissario liquidatore: tali risposte sono utilizzabili come prove in un eventuale, successivo processo penale? La questione, per il diritto inglese, è complicata; ma, in via di principio, tre soluzioni sono concepibili, in relazione al tenore della legge che impone l’obbligo di rispondere:
il rischio di un’incriminazione, in caso di risposte aventi un certo contenuto, esclude l’obbligo di rispondere;
la persona è obbligata a rispondere, ma il carattere coatto della risposta ne impedisce l’utilizzazione quale prova penale;
la persona è obbligata a rispondere e le sue risposte, sebbene forzate, possono costituire prova a carico in un eventuale processo penale.
Per la terza, se non anche per la seconda, delle soluzioni prospettate, si configura un’incompatibilità con la citata sentenza, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo, avendo deciso che la Convenzione riconosce implicitamente un diritto al silenzio, dichiara che tale diritto era stato violato per via di un procedimento penale instaurato contro una persona per il reato di rifiuto di esibire alle autorità documenti su conti bancari all’estero, vale a dire per il rifiuto di fornire *** suscettibili di essere utilizzate a suo danno come prova a carico, dimostrativa di violazioni penali della legislazione valutaria.
La seconda questione concerne il trattamento dell’accusato che, nel corso del procedimento penale, abbia scelto di esercitare il suo diritto al silenzio. Suscita indubbiamente sospetti il fatto di non dare spiegazioni, in una situazione in cui un innocente avrebbe potuto spiegarsi. Ma un tale esercizio del diritto al silenzio, può di per sé costituire prova indiretta di colpevolezza?
Nel diritto statunitense, la risposta è stata a lungo negativa: negli U.S.A., il diritto al silenzio è riconosciuto sotto un duplice aspetto, vale a dire che non si può punire nessuno per il fatto del rifiuto di parlare, né giudicarlo colpevole (del reato di cui è accusato) a causa di tale rifiuto. Sotto l’influenza americana, il diritto inglese ha poi adottato la stessa posizione durante il XX secolo, così come il diritto tedesco.
Nel diritto francese, invece, la posizione è differente: la persona sottoposta a procedimento penale può sempre rifiutarsi di rispondere, se valuta tale atteggiamento più conforme agli interessi della sua difesa, fermo restando, per magistrati e giurati; il diritto di trarre da tale atteggiamento ogni conseguenza utile al formarsi della loro convinzione.
Nella stessa Inghilterra, del resto, la questione ha ultimamente dato luogo ad accese controversie. Secondo una parte della dottrina e dell’opinione pubblica, è poco opportuna l’imposizione *** di un divieto di trarre conclusioni sfavorevoli da un ambiguo rifiuto di spiegarsi. Nel 1993, il Governo britannico ha adottato un progetto di legge tendente a consentire alle corti di trarre "la conclusione che sembri migliore" dal rifiuto di un indiziato di rispondere alle domande della polizia, oppure dall’esercizio del diritto al silenzio, da parte di un accusato, in dibattimento; e, malgrado l’opposizione di chi accusava il Governo di voler distruggere i principi fondamentali della procedura penale rovesciando la presunzione d’innocenza, la legge è stata varata nell’ottobre 1994.
In materia, sono d’altronde da registrare anche due importanti decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. In una prima occasione, ha ritenuto che non possa dirsi a priori incompatibile con la Convenzione europea una disciplina che in certe situazioni consenta a un organo giudicante di trarre una prova implicita di colpevolezza dal silenzio di una persona sottoposta a procedimento penale. Con una decisione successiva, la Corte ha però censurato, sotto il profilo del diritto di non incriminarsi da soli, l’uso di dichiarazioni autoindizianti.
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