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Di Maio, la centralità della poltrona 

Difficile credere che l’esponente grillino non si sia accorto della distanza abissale che separa la cultura politica, i programmi, le esperienze amministrative e di governo della Lega e del PD

  

C’è qualcosa di torbido in un leader politico che si vanta di non vedere alcuna differenza tra partiti e schieramenti radicalmente divergenti, a patto che qualcuno gli garantisca la poltrona. Qualcosa che ha a che fare con la perdita di senso della politica e con la sostituzione di un sistema anche minimo di valori con la centralità assoluta del potere.

Questo il messaggio che Luigi Di Maio ha voluto trasmettere agli italiani, quando ha affermato che per il Movimento Cinque Stelle un patto di governo si potrebbe fare “sia con il Partito Democratico sia con la Lega” con l’unica condizione che alla guida di quel governo sia collocato lo stesso Di Maio. Difficile credere che l’esponente grillino non si sia accorto della distanza abissale che separa la culturapolitica, i programmi, le esperienze amministrative e di governo della Lega e del Pd.

Più facile immaginare che Di Maio abbia voluto elevare a sistema di navigazione politica il proprio qualunquismo (in senso letterale, dal momento che “qualunque alleanza” potrebbe funzionare al suo obiettivo), incoraggiando il Paese ad abbandonare idee, convinzioni e differenze per unirsi a lui nella sacra battaglia di garantirgli un posto al vertice dell’esecutivo.

L’ambizione, si sa, può giocare brutti scherzi. E quanto sta capitando a Di Maio in queste settimane somiglia molto al sacrificio della lucidità politica sull’altare di una spregiudicata caccia alla sedia di comando. Un sacrificio così precipitoso da spingerlo a commettere errori a ripetizione. Il primo, e forse più prevedibile, consiste nella prova di analfabetismo costituzionale di cui ha dato prova annunciando che con il voto del 4 marzo gli italiani avrebbero eletto un Governo con relativo Presidente del Consiglio.

Per cogliere tutta la strumentalità di quell’annuncio basterebbe ricordare allo stesso Di Maio, oltre ad un piccolo ripasso di Diritto costituzionale, uno degli svariati allarmi contro “i rischi dell’uomo solo al comando” lanciati da esponenti M5s all’epoca del referendum sulle riforme costituzionali. Il secondo e più grossolano errore è la pretesa di determinare linea e assetti in casa d’altri, con la curiosa richiesta al PD di “sbarazzarsi di Renzi” per facilitare il patto con il Movimento Cinque Stelle.

Purtroppo per Di Maio, il “metodo Casaleggio” funziona solo a casa sua. E nel Partito Democratico è ancora diffusa l’abitudine di discutere in totale libertà (forse troppa, ritengono alcuni, ma nessuno è perfetto) di cosa è giusto o sbagliato per lo stesso Partito Democratico. Lo stiamo facendo e continueremo a farlo, guardando serenamente al “duro monito di Di Maio” come al goffo tentativo di intimidazione di chi appare ossessionato solo dalla ricerca del potere.

Perché se volessimo tentare una sintesi di questo primo mese trascorso dalle elezioni politiche la troveremmo facilmente nella famelica occupazione di poltrone da parte del Movimento Cinque Stelle: dalle cariche parlamentari, comprese quelle di controllo e verifica, fino all’ultima forzatura sulla Commissione straordinaria del Senato assegnata proprio oggi ad un esponente M5s in barba alle consuetudini e alle garanzie per le minoranze.

 

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