Reddito di cittadinanza ?? Addio !!

Od almeno , quello con cui gli sciagurati del M5s ne hanno interpretato il significato  verbale che costituisse , agli occhi degli adepti , una giustificazione del perché entrassero nella stanza dei bottoni . Quello io definisco una “truffa” e che non ci voleva molto per accorgersene. Non ce la saremmo potuta permettere con la fiscalità generale rispetto al reddito da lavoro pulito, si è incrementato il tasso di lavoro nero, si è creata una platea di percettori che non ne avevano diritto e percepita pure da tanti ben al di là delle situazioni di effettivo bisogno. Si è messa in piedi una categoria di intermediazione che non ha funzionato se non come ulteriore sussidio ( 3.000 Navigator ), si è sostituito il metro di misura dell’ingiustizia e dell’assalto alla diligenza a quello dell’emulazione e della competizione sul mercato. Si e’ dato voce a quelli che già ci presero per il Kulo quando ci dissero che in Italia si era abolito la povertà . Ci dissero che questo provvedimento avrebbe portato centinaia di migliaia di posti di lavoro ( adddirittura 3 offerte per ogni percettore ). Ora servono 200 milioni di euro per pagarlo fino alla fine del 2021 ed altri 800 milioni per rifinanziarlo per il 2022. Non c’è lo possiamo permettere . Va abolito o rivisto quasi totalmente . Draghi ne e’ consapevole e lo farà . Saranno usate parole “ dolci” per salvare la faccia ai 5 stelle che potranno dire ai propri e sempre meno elettori-storioni che hanno vinto e che il reddito rimane , ma la verità sarà completamente diversa . Così come funziona ora “ adios” reddito . Ora si cambia . Tutto e con buona pace di Cazzari napoletani e non . Una forma di sostegno per chi non ce la fa ci sara’ come e’ giusto che ci sia e come esiste in tutti i Paesi occidentali . Quando lo farà ?? Nella prossima manovra di Bilancio . 

 

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7 messaggi in questa discussione

fenomeni opportunistici da parte di chi percepisce sussidi non sono un problema solo italiano. Il Regno Unito ha così costruito un sistema di welfare-to-work. Se ne potrebbero riprendere alcune caratteristiche, per comporre un meccanismo equilibrato.

Reddito di cittadinanza e Universal Credit

Il reddito di cittadinanza è ancora una volta sotto accusa. In particolare, le critiche riguardano la cosiddetta “Fase 2” del programma – quella dedicata alle politiche attive del lavoro – per l’incapacità di contrastare adeguatamente diffusi fenomeni di ricorso al lavoro sommerso da parte dei suoi beneficiari; allo stesso tempo, lo strumento non sembra essere in grado di incentivare la partecipazione al mercato del lavoro.

Non è chiaro quanto il fenomeno sia esteso in Italia, ma l’opportunismo dei percettori di sussidio è un tema noto in letteratura ed è oggetto di dibattitto in tutti i paesi occidentali. I tentativi di contrastarlo sono vari, oggetto di analisi, anche cinematografica come nel film Io, Daniel Blake , che esplora proprio le pratiche di condizionalità del sistema più avanzato al mondo di welfare-to-work, ovvero quello del Regno Unito.

Nel Regno Unito esiste un sistema di tutela analogo al reddito di cittadinanza, si chiama Universal Credit e racchiude tutti gli strumenti di *** pubblica (per esempio, indennità di accompagnamento, Naspi, Rdc, e così via) che, a seconda della tipologia di bisogno e dei contributi versati, varia in termini di importo e durata. Va detto che uno strumento unico di tutela, facilmente riconoscibile e ampiamente noto alla popolazione, sarebbe auspicabile anche per il contesto italiano.

Figura 1 – Le tutele offerte dall’Universal Credit nel Regno Unito.

Anche nel Regno Unito esistono milioni di beneficiari e, tra di loro, centinaia di migliaia hanno costantemente comportamenti opportunistici. Per contrastare il fenomeno è nato, dai tempi di Margaret Thatcher, il principio di welfare-to-work. A differenza dei percettori del reddito di cittadinanza, nel Regno Unito il beneficiario di Universa Credit non sigla una “patto di servizio”, ma una “dichiarazione di intenti”.

Il nostro “patto di servizio” spesso è un atto formale (senza conseguenze pratiche), mentre nel modello anglosassone la “dichiarazione di intenti” è invece un “contratto” siglato dall’utente, a cui spetta dimostrare il suo reale impegno nella ricerca di un lavoro. Esiste un cronogramma da rispettare, il disoccupato deve “provare” di aver cercato lavoro almeno per 35 ore settimanali: attraverso cronologie della ricerca online, e-mail di conferma di colloquio e altro ancora. Tutta la documentazione va consegnata al work coach del Jobcentre Plus che il percettore incontra generalmente una volta ogni due settimane (può capitare però che gli incontri siano giornalieri). Il percettore dovrà partecipare anche a una serie di “disposizioni ufficiali”, ovvero workshop e altre iniziative di politiche attive.

Leggi anche:  Perché poche famiglie ricevono il reddito di emergenza

La condizionalità implica un apparato sanzionatorio che si rivale direttamente sul benefit e sulla sua entità ed è diversamente articolata (sospensione o decurtazione) a seconda della discrezionalità del work coach; ovviamente, l’utente ha la possibilità di fare ricorso. Ad esempio, può essere sanzionato il solo ritardo agli appuntamenti oppure la mancanza di documentazione a supporto della ricerca del lavoro svolta.

L’impatto della condizionalità

In Italia la condizionalità è prevista nel quadro normativo, il problema è sempre stata la sua attuazione. È bene sottolineare, che, indipendentemente dall’impatto occupazionale che produce, la condizionalità rappresenta sicuramente un ottimo strumento di contrasto al lavoro sommerso dei destinatari di eventuali sussidi, soprattutto se sono obbligati a seguire seminari o a svolgere attività di ricerca del lavoro presso i centri per l’impiego.

Tuttavia, è altrettanto lecito chiedersi se la condizionalità riduca concretamente la disoccupazione oppure sia fonte di deprivazione e conduca i disoccupati non al lavoro, ma all’inattività.

In letteratura non esistono studi statisticamente rilevanti che possono formulare una risposta chiara. In generale, l’effetto appare significativo solo nel breve periodo e questo rappresenta l’elemento costante anche nelle ultime ricerche. Nella versione tedesca e inglese di workfare, la pressione prodotta da “avvertimenti” e “sanzioni” comporta che l’accettazione di qualsiasi offerta di lavoro funziona solo nei confronti dei soggetti più “appetibili” al mercato del lavoro, mentre per i più svantaggiati ha un impatto negativo anche in termini di salute mentale, viene infatti percepita come degradante o stigmatizzante e la consapevolezza di ricevere sanzioni genera anche ansia e risentimento, creando un esercito di inattivi esclusi dal sistema più  che nuovi occupati.

Paradossalmente, come emerge da una ricerca qualitativa, la maggior parte dei partecipanti al Work Programme nel Regno Unito, indipendentemente dal loro livello di “occupabilità”, ha ritenuto che il regime delle sanzioni generasse comportamenti opportunistici: col tempo si diventa esperti nell’ingannare il sistema.

Dichiarazione di intenti e integrazioni salariali per il workfare italiano

È dunque necessario costruire un meccanismo equilibrato. Alcuni aspetti del welfare-to-work anglosassone dovrebbero essere adottati quanto prima nel contesto italiano e al posto del “patto di servizio” si dovrebbe optare per la “dichiarazione d’intenti” dei Jobcentre Plus, spostando l’onere di ricerca verso l’utente (alcune attività di ricerca sono semplici e facilmente applicabili) e affidando l’attività di controllo agli operatori dei centri per l’impiego. Si tratterebbe di un’attività impegnativa, che si potrebbe in parte delegare a soggetti privati accreditati ai servizi pubblici per l’impiego. Tuttavia, la condizionalità non avrà probabilmente effetto nei confronti dei soggetti più distanti al mercato del lavoro, i quali rischiano di essere solo esclusi dal sistema. A ciò si aggiunge il rischio che il risparmio in welfare possa essere riversato in una maggiore spesa nel sistema giudiziario-carcerario e in sicurezza.

Leggi anche:  Con la povertà piove sempre sul bagnato

Meglio accompagnare il regime sanzionatorio a progetti di inserimento sociale e, come avviene con l’Universal Credit, prevedere anche un’integrazione al reddito (temporanea e di importo non molto elevato nel caso inglese) se il percettore decide di accettare un lavoro. Non si hanno dati sull’impatto della misura, ma certamente potrebbe essere un ottimo incentivo alla partecipazione del lavoro.

Figura 2 – Il modello di integrazione al reddito del programma Universal Credit.

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Certo che sì !! Al Falso hanno già bonificato 300.000 euro a Tiziano Renzi . Tra poco chiedono un contributo anche a te . Al Cazzaro invece No . Lui gli ha già dato tutti i suoi averi . 

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Facciamo 230.000 euro e non se ne parli più !!   Comunque si parlava di O’reddito , eh Sanchina ?? 

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Erano 30.000 non 300.000. 

O' reddito? le ho risposto con  "la voce", non ha letto l'articolo, eh gallina?

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