Il metodo cinese

Si è acceso un nuovo focolaio in Cina dopo diversi mesi di calma piatta. L'ultimo decesso (esclusa Hong Kong) risale al 17 maggio, l'ultimo piccolo focolaio (idem c.s.), di appena 12 casi, risaliva ai primi di ottobre nella città portuale di Qingdao. Per spegnerlo non fu necessario il lockdown. Le autorità si "limitarono" a fare il tampone all'intera popolazione (9 milioni di abitanti!) e a isolare i positivi e tutti quelli con cui erano venuti in contatto. Grazie alla collaborazione dei cittadini l'operazione fu completata e archiviata in pochi giorni. Questo focolaio nato nel 2021 si presenta più serio. Ieri la Cina ha dichiarato 103 nuovi positivi: da noi sarebbero considerati un'inezia da zona bianca, loro non contavano tanti casi in un giorno da marzo e hanno risposto mettendo in lockdown duro 22 milioni di persone. Che sono gli abitanti complessivi delle tre città colpite, situate nella provincia di Hebei a nord di Pechino, da non confondersi con Hubei, la provincia di Wuhan dove iniziò la pandemia (sempre che non fosse già iniziata in Lombardia). Come riporta l'Ansa, questo focolaio comprende finora 560 casi di cui 234 asintomatici. Ribadisco però che nel bollettino giornaliero della Cina non sono contati gli asintomatici. Questi verranno inseriti solo se presintomatici, ovvero se e quando avvertiranno sintomi. Naturalmente è già partito il testing a tappeto nelle tre metropoli. Testing e tracing a tappeto, più lockdown duro (quando necessario): questo è quello che io chiamo metodo cinese o metodo a forza bruta. È il metodo con il quale la Cina ha sostanzialmente domato il virus. Anzi molto probabilmente lo avrebbe eradicato dal suo territorio se non ci fossero i casi di importazione. Nonostante i controlli severissimi nei porti e negli aeroporti, qualche infetto può sempre sfuggire (come nel caso di Qingdao e probabilmente anche nel caso in oggetto). Ad ogni buon conto, non appena il virus prova ad alzare la testa viene bloccato a suon di quarantene, tracciamenti e tamponi. A milioni. Diciamo che per il coronavirus la Cina è un luogo inospitale come poteva esserlo per il frodatore Berlusconi una cella da dividere con 10 nigeriani alti due metri qualora l'Italia fosse stata un paese serio.

A proposito dell'Italia, il nostro quadro epidemico è stabile ma con prospettive negative come direbbe un'agenzia di rating. I decessi non accennano a diminuire e i reparti Covid tornano a riempirsi. Ma siamo in zona gialla o arancione, incluso il Veneto (oggi altri 166 morti e oltre 2mila casi) che in Cina sarebbe sotto chiave da un mese (e avrebbe evitato migliaia di lutti). Addirittura si comincia a parlare di zone bianche qualora Rt scendesse sotto 0,5. Cioè del modo più rapido per farlo risalire (ammesso e non concesso che le stime di Rt siano corrette). La cosa che più mi fa rabbia è il netto calo, quasi un crollo, nel testing. Circa 205mila tamponi al giorno di media a novembre, 150mila a dicembre, 127mila in questi primi 12 giorni di gennaio. Eppure il virus continua a circolare di brutto. Probabilmente si fanno meno test anche perché, per i troppi casi, è andato in tilt il tracciamento dei contatti, ma così si crea un circolo vizioso, un effetto valanga. Perché meno contatti si tracciano e si testano, più infetti sfuggono, più veloce circola il virus e più gente muore. Se non si riesce a tracciare tutti i contatti a rischio di un positivo, è pur sempre utile tracciarne e testarne una parte. TEST, TEST, TEST su ogni caso sospetto, raccomandava a marzo il direttore generale dell'OMS. Oggi questa raccomandazione è vieppiù importante. Ultimamente sono stati sdoganati i test antigenici rapidi, nel senso che vengono contati nel bollettino anche i positivi al test rapido. Una scelta, ci dicono, conseguente al notevole incremento dell'affidabilità di questi test, sia pure meno accurati del tampone molecolare. Purtroppo, da quanto leggo in Rete le cose non stanno esattamente così. In novembre è stato testato allo Spallanzani di Roma un antigenico il cui produttore dichiarava una sensibilità, cioè una capacità di riconoscere gli infetti, pari all'80%. Per confronto con un test molecolare di precisone è stata invece misurata una sensibilità del 22%, cioè un test da buttare. Sempre in novembre al Gonzaga di Orbassano su un antigenico con sensibilità dichiarata al 95% si è misurato solo l'80%. Questi test rapidi funzionano molto meglio sotto l'aspetto della specificità, ovvero la capacità di riconoscere i sani, ma è chiaro che i falsi negativi sono molto più pericolosi dei falsi positivi. A meno che il falso positivo non venga ricoverato in un reparto Covid e si infetti sul serio, come purtroppo è capitato. Insomma, i test rapidi ci fanno risparmiare tempo e denaro ma ci fanno anche sfuggire molti casi di contagio.

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3 messaggi in questa discussione

Chi è costretto alla chiusura totale come viene risarcito in Cina, sig Fosforo?

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1 ora fa, ahaha.ha ha scritto:

Chi è costretto alla chiusura totale come viene risarcito in Cina, sig Fosforo?

Non lo so ma non credo che siano previsti risarcimenti specifici. Immagino che, come accade in tutti i paesi comunisti, le famiglie che non arrivano a fine mese ricevano dallo Stato o dal comune una tessera alimentare. E immagino che a chi non può pagare l'affitto o avere una casa di proprietà sia assegnato un decoroso alloggio popolare. Questo anche per chi perde il lavoro. L'unica condizione è accettare il lavoro che ti verrà offerto dallo Stato o da un'azienda di Stato. Se non lo accetti, emigri o muori di fame (nella ex Unione Sovietica invece andavi in Siberia ai lavori forzati). Ma non mi risulta che in Cina si muoia di fame. Un lavoro, magari modesto, lo si trova. Considera che ancora oggi il PIL pro capite dei cinesi è meno della metà di quello degli italiani, per l'esattezza circa 17mila dollari contro 40mila (stime FMI 2020 a parità di potere d'acquisto). Se noi salissimo a un miliardo e mezzo di abitanti e scendessimo a 17mila dollari di PIL pro capite, secondo te quanti milioni di italiani l'anno morirebbero di fame? Il punto da capire è che in un paese comunista il problema di garantire la costanza del tenore di vita o dello stile di vita dei cittadini nei periodi di crisi, anche a costo di fare deficit e debito pubblico, non si pone. Si pone il problema di distribuire i sacrifici tra tutti. Questo è possibile perché in queste economie centralizzate lo Stato ha il controllo quasi totale e diretto non solo della politica monetaria e fiscale ma anche dei livelli dei prezzi e dei salari. Che invece nelle economie di mercato sono per l'appunto regolati dal mercato. Tieni anche conto che Wuhan e la provincia di Hubei (60 milioni di abitanti) fecero un lockdown durissimo di due mesi e mezzo, ma nel frattempo il resto della Cina stava bene e lavorava per loro. Volendo fare un paragone con l'Italia, è come se noi già a fine febbraio avessimo chiuso Lombardia e Veneto in un bunker impenetrabile (chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori), avessimo imposto regole rigidissime e chiuso tutti gli uffici e tutte le fabbriche delle due regioni, e le avessimo liberate verso metà maggio ma in ogni caso solo dopo avere fatto il tampone a tutti i veneti e a tutti i lombardi e avere isolato i pochi ancora positivi. In questo modo avremmo confinato l'epidemia e azzerato la curva a parte pochi casi di importazione. Cose che noi neppure ci sogniamo. Ci affidiamo ai vaccini, ma se disgraziatamente i vaccini non funzionassero, credo che il metodo cinese sarebbe l'unica alternativa all'ecatombe e al crollo completo dell'economia. Poco fa la dottoressa Capua ha detto in tv che, anche ammesso che i vaccini funzioneranno, non usciremo dalla pandemia prima del 2023. Saluti 

Modificato da fosforo311

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Ecco appunto, sig fosforo, in Cina il metodo funziona perché vale "zitto e mosca".

Da noi non funziona perché ci sono troppi che protestano anche quando non dovrebbero protestare.

 

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